Costruire un mondo da zero

Come il world building mi ha insegnato a progettare per gioco (e per lavoro)

GAME DESIGNLABORATORIOMATERIALI

Marco Bacceli

2/2/20253 min leggere

Costruire un mondo da zero

Cosa ho imparato facendo world building per gioco (e non solo)

Il world building – la creazione di mondi immaginari – per molti inizia come un hobby, spesso legato ai giochi di ruolo.
Anche per me è stato così. Le prime mappe, i regni disegnati a matita, le cronologie improbabili… erano un modo per dare forma a tutto ciò che la testa non riusciva a contenere. E in un certo senso lo sono ancora.

Nel tempo, però, quella passione ha cambiato forma. È uscita dal tavolo del GdR ed è entrata in laboratori formativi, in giochi educativi, in oggetti costruiti con stampanti 3D e legno inciso.
Perché costruire un mondo, in fondo, è una delle attività più profonde che possiamo fare: ci obbliga a pensare a come funzionano le cose, a chi le abita, a quali regole le governano.

Le prime volte: entusiasmo, confusione e tante mappe

Come molti, ho iniziato con l’entusiasmo della scoperta: disegnare territori, inventare popoli, immaginare storie epiche.
A quei tempi bastavano carta e penna. Poi è arrivato tutto il resto: software, appunti, atlanti, riferimenti mitologici, alberi genealogici che manco Tolkien…

Le prime difficoltà sono sempre le stesse: come tenere insieme tutto? Come non contraddirsi? Come evitare di cadere in cliché?
Ci si rende presto conto che non basta essere creativi: serve progettazione, coerenza, capacità di tagliare il superfluo.

Dal tavolo al laboratorio

Nel mio caso, il passaggio successivo è stato portare quei mondi fuori dal GdR.
In contesti formativi, spesso costruisco ambientazioni su misura per facilitare il lavoro dei gruppi: esplorazioni simboliche, sfide collaborative, missioni narrative.

Quando progetto queste esperienze, costruisco anche oggetti fisici: mappe incise al laser, carte con ruoli, elementi tridimensionali stampati in 3D, medaglioni, simboli.
Tutto prende forma nel mio laboratorio, dove le tecnologie (plotter, laser, resina, filamento) incontrano una logica narrativa.
Non serve che ogni oggetto sia perfetto: l’importante è che abbia senso, che aiuti il gruppo a immergersi nel mondo.

Strumenti che aiutano, ma non bastano da soli

Uso anche strumenti digitali: World Anvil, Wonderdraft, app per mappe o generatori casuali. Ma non parto mai da lì.
Parto da un’idea, da un conflitto, da un gesto. I software sono utili per tenere insieme le informazioni, ma il cuore del lavoro resta narrativo.

A volte creo mondi che si evolvono durante il gioco. Altre volte lascio apposta degli spazi vuoti, perché possano essere riempiti dalle scelte dei partecipanti.
Un buon mondo, per me, non è quello che è già tutto scritto. È quello che può crescere con chi lo attraversa.

Le sfide che ho imparato a gestire

Nel tempo, ho imparato a stare attento ad alcune trappole comuni:

  • Troppi dettagli bloccano: non tutto va spiegato. L’importante è che le cose siano coerenti, non che siano complete.

  • Le conseguenze devono essere visibili: se il gruppo fa una scelta forte, il mondo deve reagire.

  • La forma serve alla funzione: una mappa bella ma inutilizzabile non aiuta nessuno.

  • Flessibilità prima di tutto: se il gruppo va in una direzione imprevista, il mondo deve potersi piegare, non spezzare.

Il vantaggio di un’ambientazione fatta a mano

Usare un’ambientazione propria ha un vantaggio enorme: può cambiare, crescere, evolversi.
Non sei vincolato al lore ufficiale di un’ambientazione già scritta. Sei libero di seguire ciò che succede al tavolo.
E soprattutto, puoi creare connessioni significative tra ciò che accade nel mondo e ciò che accade nel gruppo.

Un dettaglio inciso su una carta, una frase scritta sul retro di un gettone, un simbolo tracciato su una plancia: tutti elementi che possono attivare conversazioni, stimolare memoria, far sentire il gruppo dentro la storia.

Lasciare spazi vuoti per fare spazio al gioco

Una delle lezioni più importanti è questa:
non serve sapere tutto del mondo che crei. Anzi, è meglio se lasci degli spazi vuoti.

Quei vuoti servono per:

  • improvvisare durante la sessione;

  • dare spazio ai giocatori;

  • introdurre nuovi elementi senza dover riscrivere tutto.

Sono come zone d’ombra nella mappa: non perché manchi il tempo, ma perché c’è spazio per quello che ancora non è stato immaginato.

In conclusione: il world building non è solo un hobby

È una palestra creativa, un esercizio di coerenza, una forma di narrazione condivisa.
E può diventare molto più di un passatempo, soprattutto se lo si porta fuori dal gioco in senso stretto.

Nel mio lavoro con i gruppi – che siano scuole, aziende o associazioni – la creazione di mondi è spesso uno strumento potente per osservare, raccontare e trasformare.
E ogni volta che apro una nuova mappa o metto in mano a qualcuno una carta che ho inciso io, torno a sentire quella stessa emozione delle prime mappe disegnate a penna, anni fa.